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DI WALTER GALASSO

Il moscio signor Pietro Alfano, soggetto piuttosto ipodotato a livello mentale, tant’è che la scorsa settimana un suo oculato detrattore, Max, senza diplomazia sulla lingua, l’ha definito un pirla, si reca in un suo orribile garage, più o meno equivalente a una stalla a cinque stelle. L’uomo, palesemente sovrappeso, guida il suo scooter, seduto sulla sella in modo buffo.
Quando arriva al garage -un fatiscente locale, un tugurio piccolo, senza luce e senz’acqua, e con un clandestino topo che ogni tanto semina sulla sua rozza superficie qualche sterco- nota che in un contiguo loft, parimenti suo, dato in affitto a uno straniero, Umar, è parcheggiata, sotto un albero maestoso, l’automobile dell’inquilino. Pietro da tempo vuole rampognarlo, per il chiasso che lui & qualche amico fanno ogni domenica. Gli è giunta una voce: l’affittuario e il clan di cui è leader si radunano nell’immobile e disturbano la quiete pubblica generando un privatissimo baccano, con la musica a tutto volume, prima e dopo una bella abbuffata festiva.
Va a bussare. Toc toc, con la mano destra colpisce più volte la porta d’ingresso, certo, data la forza della percussione, che quel personaggio, sicuramente dentro, lo abbia sentito. L’insoddisfatto proprietario pensa ‘si vanta di essere diplomato -questo padrone non lo sopporta anche perché è uno straniero che parla l’italiano meglio di lui e ha un titolo di studio superiore al suo-: se è un uomo davvero educato verrà subito, senza farmi aspettare’. Purtroppo i suoi colpi non causano nessuna reazione dell’immigrato. Mister Alfano non la prende bene. Nella sua soggettività, alquanto ammorbata da una larvata forma di xenofobia, albeggiano improperi e insulti in salsa di laido razzismo. ‘Ma tu vedi che cosa mi doveva capitare! ‘Sto negro di merda, maleducato, villano, fa finta di non aver sentito. Io sono capace, se mi fa girare i coglioni, di sfrattarlo su due piedi, senza pietà. Sono buono e caro, ma se mi pestano i piedi divento una iena e non rispondo delle mie azioni’. Smette di bussare e inizia a pigiare, con un’intensità isterica, il campanello.
Dopo sei secondi, che l’animo di Pietro percepisce emotivamente come una lunga durata, il nigeriano finalmente si materializza sull’uscio. Ha un’aria assonnata, sbadiglia, sembra che sia stato fra le braccia di Morfeo fino a poco fa. E infatti “Ehi, boss, mi hai svegliato, stavo dormendo, ché stanotte ho lavorato. Dimmi, che vuoi?”. Il proprietario resta basito di fronte a questa reazione. Ha la sensazione che l’interlocutore abbia voluto sgridarlo indirettamente, un’ipotesi che lo snerva. Crede che questa situazione -lui, il padrone, che viene trattato come uno sgradito ospite dal suo inquilino- sia assurda e zeppa dell’irriverenza di quel tizio nei suoi riguardi. Deve contare fino a mille per non sbottare in esternazioni inconsulte e dirne di ogni. ‘E va bene, portiamo pazienza, chi più ne ha più ne metta’, pensa tra sé e sé mentre lo straniero annusa una sua ascella -ha una mise piuttosto trasandata, con una canottiera senza maniche-, per appurare se puzzi. Vuole inviargli un messaggio nel linguaggio dei gesti: “non ti considero proprio”.
Pietro, nel sarcastico incipit del suo discorso, lo provoca, “ma tu dormi di giorno?, nessuno ti ha insegnato che chi dorme non piglia pesci?”. Il prospiciente colosso -è un ‘armadio’ alto più di un metro e novanta e pieno di muscoli, un mandrake, una vera forza della natura- non la prende bene. Conosce a menadito quest’uomo bianco, sa dove va a parare quando parla come ha fatto dianzi. “Cominciamo bene, bwana! Tu mi vuoi prendere per il culo, ma hai fatto i conti senza l’oste. Non continuare con quel tono, ché la mia pazienza ha un limite”. “Abbassa la cresta, ganassa, fai meno il bullo, e non ti dimenticare che nel nostro rapporto io sono in serie A, perché per la legge sono il proprietario, e tu in serie B, mero inquilino, alla mercé della mia volontà. Se mi fai arrabbiare, continuando a fare l’arrogante, io ti sfratto, senza se e senza ma: uomo avvisato mezzo salvato”.
L’abboccamento evidentemente non è iniziato nel migliore dei modi. Le polarità in campo sembrano l’un contro l’altra armate -in senso lato, almeno si spera-, non si sopportano e non fanno nulla per nascondere questa idiosincrasia. Pietro decide di arrivare subito al dunque, senza menare il can per l’aia. “Stammi bene a sentire, fenomeno dei miei stivali. Mi sono arrivate lamentele, da diversi vicini, a proposito del vostro modo di comportarvi la domenica, quando tu e i tuoi amici vi riunite per darvi alla pazza gioia”.
Queste parole sono palesemente foriere di una reprimenda. L’antagonista si mette sul chi va là, già urtato da un approccio sintomatico di aggressività, bacchettate pseudopedagogiche, moleste tirate d’orecchie. “E allora? Che facciamo di male? Non credo che arrivino gli sbirri per metterci le manette e portarci in prigione”.
“Mio caro lei, nella società civile la libertà di ognuno finisce dove inizia quella degli altri. Un essere ammodo non deve molestare l’ambiente facendo caciara e casino, perché a tenore di legge si può essere imputati di disturbo della quiete pubblica, inquinamento acustico e compagnia bella”.
“E compagnia brutta, altro che bella! Parli come un libro stampato, sei banale e borioso, pretendi di venire qui per insegnarmi la retta via, per dirmi il confine tra il bene e il male”. Brevissima pausa, durante la quale lo straniero infila l’indice della mano destra nella narice sinistra e ne estrae un grammo di cacca. L’altro lo guarda con aria schifata, puah!, pensando ‘che buzzurro ottentotto, un autentico zulù, peggio di un animale’. Umar, malandrino e birichino, ha scientemente voluto iniettare ribrezzo nel rivale, per esternare in modo stranamente simbolico la sua ostile avversione: adesso se la ride sotto i baffi -un modo di dire: egli non si è mai fatto crescere mustacchi, gli piace essere sempre sbarbato-.
L’emigrato riprende a parlare, nella seconda puntata della sua arringa difensiva. “Non devi dirmi tu, imperatore da operetta, come io e i miei fratelli ci dobbiamo comportare. Siamo grandi e maturi, non abbiamo bisogno di una guida che ci educhi a suon di pallosi pistolotti”.
“Ma quali pistolotti d’Egitto! Ma bada a come parli! Io sto semplicemente alludendo all’abbiccì della buona creanza. Voi, nella ciclica celebrazione dei vostri rituali divertimenti, avete il sacrosanto dovere di non fare baccano”.
Ormai nell’aria v’è una tensione che si taglia a fette. Il dialettico duello rischia di degenerare da un momento all’altro. Dagli occhi di entrambi emana un sentimento assai simile all’odio, mentre nelle loro bocche è entrato un pienissimo silenzio. Che dura poco, interrotto dal rumore tremendo di molte moto di grossa cilindrata.
Sono gli amici di Umar. Il signor Alfano, che ha sempre pensato che il clan del conduttore ammontasse a quattro, cinque, al massimo sette anime, impallidisce quando essi lo circondano: urca, sono molti di più e, guaio alla seconda, hanno un aspetto a dir poco temibile.
Uno di loro, italiano, Miro, detto “Trash”, forse il numero due nella gerarchia della comitiva, chiede a Umar “che vuole questo?”. “Dice che la domenica facciamo chiasso”. Al che il sintetico e sibillino Trash si avvicina all’invasore e, guardandolo nelle palle degli occhi, sputa la minacciosa domanda “Hai qualche problema?”. Una parte della mente di Pietro suggerisce a tutte le altre di sloggiare e togliere il disturbo, quanto prima. Meglio l’incolumità in uno scorno che un eroe menato di santa ragione.
Walter Galasso