MO SONO (S)CACCHI TUOI…   [Bozzetto  35]

MO SONO (S)CACCHI TUOI…   [Bozzetto  35]

MO SONO (S)CACCHI TUOI…   [Bozzetto  35]

[IMMAGINE IN EVIDENZA  BY  KELLY BELEN]

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DI WALTER GALASSO

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   Un bisogno urgente: una minzione…pipì, per intenderci con tutti. Uno straniero, con una ibrida mise -qualcuno, fan, la può definire originale, qualche detrattore può dire che questo giovane sia male in arnese-, entra in un bar di serie D, gestito da un enigmatico soggetto di poche parole, e gli chiede la cortesia di poter usare la toilette, precisando, a enfatico scanso di equivoci, che poi effettuerà un’ordinazione. Il barista, annuendo ma non troppo, dà l’agognato nullaosta, l’ospite si fionda nel gabinetto, e dal piano superiore dell’angusto locale, munito di un soppalco per supplire parzialmente al problema d’uno spazio limitato, scende un collaboratore del boss, uno sguattero che ne è spesso trattato in modo ruvido, con un’arcigna severità, ai confini del mobbing. La mente di un cliente, Paolo Paparazzo -entrato per un caffè-, è involontariamente protesa a giudicare, in modo arcisintetico, tutti e tre. Non ha dubbi sul titolare -“un dittatore”- e sul collaboratore -“uno schiavo dei giorni nostri”-, mentre tentenna sull’altro cliente -“gentile a chiedere il permesso di urinare, o un poco di buono?”-.
   Davanti a questa caffetteria, oltre una strada in genere molto trafficata, c’è un polmone verde del quartiere, un parco, fortunatamente intitolato a un eroe del Risorgimento, non a qualche mezza calzetta in auge, in uno star system da operetta, solo da qualche anno. Un’oasi caratterizzata dalla presenza di alberi mastodontici. Monumenti vegetali così alti che forse, se qualcuno si arrampichi sull’apicale cima di uno di essi, può intravedere una parte di un’altra Regione. A parte apologetiche e iperboliche esagerazioni della fantasia, questi pezzi di Natura sono veramente giganteschi, e sembrano tenere discretamente sotto controllo il tran tran umano e umanistico che avviene sotto le loro ubertose chiome.
   Il signor Paolo Paparazzo, da poco uscito dal brutto bar, attraversa, non senza fatica e dopo prudentissimi tentennamenti, la street -su cui passano pure i binari di una nota linea di tram- e decide di entrare nella villa, per rilassarsi un po’. Evita di accomodarsi su una delle tante panchine -in parte lignee, in parte metalliche-, optando per una scelta più particolare: si sistema sul bordo di una fontana. Essendoci in data odierna, in un’aria che a tratti pare tanto varia quanto profumata, un corridore venticello  -che soffia come un monello si voglia divertire giocando con amichetti in una festa di compleanno-, ogni tanto arriva sull’uomo qualche piccolissima goccia d’acqua, che il suo apparato sensoriale registra in percezioni lampo, velocissime, effimere, mere parentesi fugaci nella sua attuale concentrazione. Ogni volta che si accorge d’uno schizzo ha quasi la psicologica sensazione che qualcosa d’irregolare alteri l’andante ordine della sua interiorità.
   A circa ventisette metri da lui due tipi strani, forse coetanei, uno basso e l’altro alto -ma sono ambedue seduti, ergo il loro duo non somiglia all’articolo ‘il’-, si stanno producendo nientepopodimeno che in un match, outdoor, di scacchi. Però! Uno show che merita, a suo modo, un sincero mirallegro. Esso diverge da molta banalità circostante, anche perché quello sport è un noto simbolo di hobby coniugato con performances d’intelligenza. Ogni apoteosi in ogni sua partita, da una finalissima di Coppa del Mondo a una tenzone all’acqua di rose fra dilettanti allo sbaraglio, implica un articolato lavorio cerebrale, sagacia tattica, sopraffina ritentiva, e compagnia bella. E poi questo tipo di elegante e colto gioco ha un non so che di nobile, solenne, prezioso.
   I due antagonisti sono concentrati, anzi concentratissimi. Ognuno si spreme le meningi al fine di trovare il modo più acconcio per fregare sul più bello il rivale. Il signor Paparazzo, attirato e affascinato da tale duello mentale, ignora chi abbia sfidato chi. Di chi sia la bella scacchiera -essa è in alabastro, esattamente come ogni pezzo, e giace su un tavolino in cemento, mentre i giocatori, che un attimo fa si sono alzati all’unisono, ora sono in posizione eretta, senza tradire, in tale somiglianza con i cavalli, nessun disturbo fisico, nessuna scomodità che si possa definire un’uggiosa fatica-. Non sa altresì se nella challenge ci sia in palio un gruzzolo di schei, oppure essi lottino solo per l’onore culturale della palma. Sa soltanto, a proposito di quel trio -players + chessboard-, che è una dinamica scena edificante. E la osserva con rispettosa attenzione, spia qualche mossa, scruta la cera di entrambi, per intuire che cosa frulli nel loro cervello mentre anelano parimenti alla vittoria.
   Ah!, ahi!!, che termine divisivo!!! Che peccato che in ogni partita essa sia appannaggio solo di una persona o un’équipe! Pensa ciò questo strano spettatore mentre osserva quei due e per una frazione di secondo crede che entrambi meritino di vincere, se non altro per il rigoroso e ieratico impegno profuso. Il loro valore emerge a maggior ragione, per differenza, nella loro vicinanza con tre persone che, una in compagnia di un cane pet, stanno sbranando con rozza ingordigia unti tranci di pizza. Non si rendono conto che il dog, intento a scodinzolare e a fare le coccole al suo umano più che a chiedergli -con gli occhi e un eloquente bau bau- di partecipare al banchetto, gli sta dando una lezione morale. Un animale quadrupede sa astenersi dal verbo “magnare” per esternare affetto, cioè per dedicarsi a un’attività interiore e non meramente biologica, mentre i tre uomini divorano cibo, schiavi della fabbrica dell’appetito, come se siano a digiuno da un poker di giorni. Comparando questi mangiatori con l’intellettuale e signorile impegno degli scacchisti, sinceramente appassionati al loro squisito passatempo, questi ultimi paiono due eroi di potenza teoretica.
   Quasi involontariamente il signor Paparazzo li loda interiormente esclamando “bene, bravi, bis!”. Proprio mentre pensa il terzo segmento di questa lode succede uno sgradevole evento: il guaglione che prima, nel bar squallido, ha chiesto di poter usufruire del bagno, un soggetto ambiguo, adesso è fuori del locale, distante una ventina di metri dal perimetro del parco, e lancia, in preda a uno stupido vandalismo, un sassolino su uno dei due scacchisti, un attimo dopo l’assalto iniziando a ridere, allontanandosi, ma non velocemente, dalla scena del microdelitto. La pietra colpisce la schiena dell’umano bersaglio, lo scacchista più alto. Quello più basso guarda il teppista con un sorriso, che più o meno vuol dire ‘mo sono cacchi tuoi…’. Sa che il suo amico non è un tipo dolce di sale, e sa pure che egli, quando non sia intellettuale su una scacchiera, può menare alla grande, senza regalare a un rivale la gentilezza di chiamare la polizia. E infatti…
   Il gigante, con una reazione fulminea, rende vana la fuga di quel bastardo. In men che non si dica afferra il suo Re, si gira, individua l’attentatore e, in un prodigioso mix di forza e mira, gli scaglia addosso il pezzo e ne colpisce in pieno un braccio, urlando “Fermati, merda, ché ti spezzo in due!”. Meno male che ha deciso di non colpirne la testa.
   La partita è interrotta, ma questo lanciatore riceve uno scrosciante applauso di molti testimoni, tutti, ovviamente, dalla sua parte. Paolo è lo spettatore che applaude di più. Ora non ha più dubbi sul tizio che ha visto prima nel bar e poi, dianzi, nel lancio del corpo contundente: “è una grande testa di c…o”. Mentre lo vede fuggire, stavolta in fretta, inseguito dall’energumeno, continua a battere le mani. Lui è un fan della democrazia, e critica ogni monarchia, ma in una battaglia fra un re e una testa di c…o  fa un gran tifo per il primo.

Walter Galasso