“ORGOGLIO EVEREST”  HA PREFERITO LA DIGNITÀ   [GALASSIA UNO – RACCONTI ALL’ INFINITO / 33]

“ORGOGLIO EVEREST”  HA PREFERITO LA DIGNITÀ   [GALASSIA UNO – RACCONTI ALL’ INFINITO / 33]

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DI WALTER GALASSO

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   Gente intelligente formicola in un caotico intreccio di progetti, mentre un lavoratore insoddisfatto opera e sbuffa, e in certi suoi sguardi par che alberghi metaforica muffa. Costui, Nerone Palese, ce l’ha storta, ha la sensazione di distare anni luce dalla cosiddetta felicità, che, ormai è una verità appurata, è un’utopia, ma per qualcuno, nella morsa di una sorte poco pia, è un’utopia alla seconda.
   Questo cameriere d’un ristorante alla moda, “Il tempio del gusto”, è acquattato in un piccolo e umidissimo deposito, una sorta di dépendance del locale principale -il titolare ha deciso di parcheggiare in quello sgabuzzino, tre metri per tre, utensili che servono solo ogni tanto e scorte di bottiglie di lieo buono e caro -anzi: caro caro, il bis rende meglio l’idea-, da prendere solo per clienti particolarmente in-.
   Nero è un distinto giovinastro, Giano bifronte, da un lato ordinatissimo nel suo look, mentre nel suo animo, vagamente aggressivo e affetto da larvata volontà di potenza, versa in un marasma di pulsioni. Nello staff di cui fa parte -otto elementi in tutto, talvolta sottoposti dal boss a un turnover- è l’ultima ruota del carro, il fanalino di coda nella classifica del prestigio. Eppure in cuor suo, impregnato di un’autostima tutto sommato utile, crede d’eccellere, si sente il number one, il disconosciuto fiore all’occhiello del team tutto.
   Adesso sta prendendo una bottiglia di Petrus del 2013, rosso gioiello Merlot. Ah, che vino!, ‘sto liquido costa un occhio della testa, è stato ordinato da un pavone in giacca e cravatta, il dottor Pantaleo Pescosolido, trattato come un sire dal proprietario -che si è complimentato con lui per la lussuosa automobile lasciata dove non può essere posteggiata-. I denti di Nerone torturano un chewing gum, deliziosa “cingomma” alla menta, con e in una masticazione non immune da sfumature ossessive, e nel frattempo masticano amaro, un assenzio ch’egli non saprebbe descrivere se, puta caso, un amico gli dicesse “raccontami per filo e per segno cosa provi quando ti girano le scatole”. È un po’ frustrato, nondimeno questo eterogeneo stress, un mix di vari elementi, coesiste con la grinta di una fantasia che gli procura non poche soddisfazioni.
   Prima di portare il vino a destinazione si chiede come quell’abbiente cliente abbia fatto a diventare un qualcuno. Ipotizzando che, alla fine del pasto, ne possa provenire una lauta mancia, non sa che pesci prendere nel perimetro delle sue recondite emozioni. In teoria se, come egli prevede, il paperone si degnerà di sganciare bei quattrini, lui, beneficiario del cadeau, proverà gratitudine, o almeno qualche etto d’una franca simpatia.
   Nel suo relativo debito non ci sarebbero, però, solo rose e fiori. Perché, Nero ne è certo, la generosità di quel guappo è una polpetta quasi avvelenata. Egli, se tanto al cameriere dà tanto, offre nella misura in cui vuol sentirsi un mandrake, un protagonista al di sopra e al di fuori del comune. Ah, a questo ragazzo, sveglio e sempre sul chi va là, non la si fa! Ormai conosce l’illustre cliente, qui è già venuto -se la sua memoria ventiseienne non erra- come minimo un poker di volte, e lui lo ha pesato, ha capito di che pasta la sua (presunta) generosità sia fatta. Una volta, per esempio, era in compagnia di una fata da urlo, azzimata come una dama parvenu, al venti per cento fine e all’ottanta trash, una vamp di nome Katia. Alla fine di un’abbuffata pantagruelica, con un menu costosissimo in ogni sua fase, dall’antipasto allo stuzzicadenti finale -forse tempestato di diamanti-, il riccastro, con la mente più alticcia che lucida, gli diede, sì, una doviziosa buonamano, ma, un attimo dopo, gettò uno sguardo verso la tipa, occhi che volevano dire “hai visto quanto sono potente?” e, passando da un punto interrogativo a uno esclamativo, “wow!, come sono splendido quando faccio la carità a un miserabile proletario!”.
   Miserabile a chi? Nero è buono e caro, e ha tanto bisogno di soldi, ma se qualcuno volesse battezzare la sua fierezza potrebbe denominarla, con enfatica eloquenza, “Orgoglio Everest”. Grrr, che rabbia suscita in lui la sua condizione sociale! Il giovane, mentre spolvera la preziosa comanda, e per un attimo pensa “ma io quando potrò permettermi un vino da cinquemila euro?”, ritorna indietro nel tempo, ricordandosi di quella sera. “Lei, dietro i suoi ritocchi di chirurgia estetica, credeva d’essere chissà chi, e non si rendeva conto, più sgualdrina che regina, di essere solo una donna oggetto, comprata dai quattrini di quel deficiente”.
   Rimembra, e forse per colpa di questi sgradevoli ricordi, o forse perché comincia a farsi sentire la fatica nelle stanche membra di un ragazzo che fa il mazzo dalle sei del mattino, non ultima il suo compito come desidera il boss: precipitevolissimevolmente.
   Il proprietario, Marco Fumagalli, purtroppo ogni tanto appare agli antipodi d’un datore di lavoro illuminato e democratico. Indulge a un viziaccio che oggigiorno anche nelle enciclopedie viene chiamato “mobbing”. Qualche lettore non gradisce l’overdose di questo termine? Lo accontento: sor Fumagalli, se abbia da ridire su qualche aspetto del lavoro dei dipendenti, li cazzia senza pelame politicamente corretto sulla sua lingua, e gli fa fare figure barbine davanti a tanti avventori. “Nerò -volume della sua voce: tacca 8 su dieci livelli complessivi-, stai a pettinare le bambole? Datti una mossa, forza, non far aspettare il dottor Pescosolido, che ci onora con la sua presenza. Giddap!, muoviti!”.
   Il ragazzo non è un esperto di turf, usa il termine “ippica” solo per consigliare a qualche mezzasega di darsi a questo sport invece di continuare a credersi un fico, ma, per puro caso, sa che cosa significa “giddap” -si può forse aggiungere “purtroppo”-. Trattato come un cavallo schiavizzato da un fantino -lui è un animalista, e reputa che pure nelle gare in un ippodromo ci siano bestie un po’ maltrattate-. Quando è troppo è troppo: mette su un tavolo il Petrus, si toglie la giacca Battista, parte della divisa dello staff, la butta per terra e dice una parolaccia al principale, ora ex, perché questo umiliato lavoratore, gettando un’occhiataccia su un attonito Pantaleo, si è licenziato. “Orgoglio Everest” ha preferito la dignità.

Walter Galasso