TRE AMICHE AL BAR, QUARANTA -CON ECHI DI STENDHAL- A CENA.  UNA PIETRA MILIARE NELLA STORIA DEL  CANTIERE DELLE DONNE

TRE AMICHE AL BAR, QUARANTA -CON ECHI DI STENDHAL- A CENA.  UNA PIETRA MILIARE NELLA STORIA DEL  CANTIERE DELLE DONNE

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DI WALTER GALASSO

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   Nella ricostruzione storiografica dell’Associazione “Il Cantiere delle Donne”, albeggiato nel poetico alveo di un audace e impegnato romanticismo, è d’uopo appassionarsi a un racconto ab ovo, senza arrivare precipitevolissimevolmente al dunque del presente. Già la sua brillante infanzia, infatti, l’era immediatamente successiva al sapore ‘start up’ del sogno, realizza e simboleggia delle affascinanti caratteristiche evolutive, che attirano l’attenzione come il fascino cromatico di un’opera batik possa mettere kappaò anche la più ostinata indifferenza di occhi deconcentrati.
   Nel primo segmento dell’arco cronologico di un progetto, quand’esso è così acerbo da poter somigliare, nel suo gusto allegorico, a una possibilità di sterile utopia, la pista su cui l’élan si pone in essere e dà spettacolo può risultare sdrucciolevole. Magari c’è grinta fino al “grrr” di chi sfida a duello l’insuccesso, e nella tonalità emotiva dei pionieri trionfa senza tentennamenti un Ottimismo propulsivo, ma quando si prende dalla potenzialità un’idea come “Il Cantiere” e la si solleva, con pathos al posto di “Oh, Issa!”, non può esserci una rassicurante garanzia sugli atout di apoteosi. L’eroismo di un animo antesignano può essere fratello germano del globe-trotter che in capo al mondo sia sprovvisto di Baedeker, veda intorno spazio ostile come anecumene e reciti, come un involontario mantra, “speriamo bene”.
   Nell’incipiente voyage della condottiera Micaela, in osmosi con le sue prime compagne d’avventura, a essere outlying è stato, in senso lato, una molecola di temporale dream, non un luogo geografico. L’organizzazione di una performante équipe a tutela delle Donne, la fondazione di una Rete che potesse erigere un argine coercitivo al dilagare di ogni offesa alla loro importanza, era un volo, anche fichtiano, aleatorio.
   Non era solo, perché tre amiche al bar, un pool di atlete superdotate, sono una prosperità come, in matematica, un’ennupla che trionfi sul nichilistico vuoto di uno zero senza lavoro. Però, al netto di questo tesoretto di primigenie e irriducibili energie, la possibilità di ampliare e amplificare l’iniziale nucleo era ai confini di un luminosissimo salto nel buio. Forse qualche prevenuto detrattore, affetto da ammorbato ed eccessivo conformismo, ostile torquemada verso chi vuole aumentare e migliorare il profumo avveniristico delle ore, le avrebbe tacciate di perdente idealismo e avrebbe scommesso sul fallimento del loro anelito.
   Se si zuma, in una storia letteraria del Cantiere, sulla fase immediatamente successiva allo storico “Pronti, Via!” -argomento del mio primo articolo su questa Associazione-, si nota un doppio merito della pleiade fondatrice. Innanzitutto hanno visto mezzo pieno il bicchiere -una coppa, in cristallo di quarzo, by John Calleija…-. Virtù nel merito: hanno avuto, nella loro elegante forma mentis, un metodo diverso da, e superiore a, quello di chi, nel lanciare il cuore oltre l’ostacolo, esorcizza la fifa blu, legata all’ipotesi di non farcela, con l’escapismo in cui si rimuove la lucida contemplazione dell’ostacolo. Questi sognatori si fanno coraggio con pacche e “sursum corda!”, coltivano la speranza come un fanfarone dichiari di voler piantumare un baobab in un poggiolo, incoraggiati da pseudoamici che si spellano le mani nell’ipocrisia:  praticano un patetico surf sull’irrazionalità e i suoi derivati. Le oculate fondatrici del Cantiere, invece, hanno saputo navigare a vista duettando nel contempo con un orizzonte lontanissimo nello spazio, ma poeticamente vicino nella loro muliebre intelligenza.
   Nella loro road map il primissimo imperativo categorico è l’istanza di diventare numericamente di più. Ognuna di loro non agogna un’espansione lampo e quasi magica, non ha un animo che, piromane in senso molto lato, voglia bruciare le tappe in senso molto stretto, consapevole che i parossismi della fantasia possono cagionare burnout nei sognatori naïf. Dimostrano alla loro bella e importante città -e al resto del mondo- la poietica capacità di coniugare speme e anelito all’optimum con programmazione di un obiettivo a portata di concretezza.
   L”epifania’ di questa virtù accade in una precisa situazione spazio-temporale: una cena, in quel di Padova, nell’illustre perimetro di un prestigioso caffè letterario, alla fine del primo mese del 2020. Micaela Faggiani, Antonella Benanzato, Alessia Da Canal, Lisa De Rossi, Laura Eduati e Silvia Pittarello pianificano il debutto in società della ‘creatura’. Non si danno un aut aut velleitario, <<o calamitiamo il resto della società, in un sold out più glorioso della scoperta dell’America, oppure pubblichiamo il pamphlet “Aspettative Deluse”>>. Organizzano con laboriosa e prudente sagacia il culturale convito, serenamente consapevoli del fatto che anche la creazione di un idem sentire e di fertile sorellanza fra un discreto gruppo di amiche, per esempio loro più quattro nuove compagne di scientifico Femminismo, sarà un risultato positivo.
   L’espressione “volare basso”, almeno nell’accezione che tende ad avere nell’immaginario collettivo, non si attaglia a questo spirito, anche perché un volo è sempre bello, anche nella Natura, dove un pavone non attinge l’altitudine che per un’aquila è Heimat, ma non è certo meno affascinante della maestosa regina del cielo. L’atteggiamento di queste eroine è un sapiente e saliente mix di realismo e slancio senza Mete off limits. Sperano il massimo, si accontentano di fare un buon passo in avanti e smuovere le acque.
   Qual è stato il bilancio della cena? Nella Storia non esiste la possibilità di spoiler. Il successo di quell’evento è scritto, nero su bianco, sull’album dei ricordi del Cantiere. Dieci? No. “A quella cena, invece, arrivano 40 donne, 40 professioniste, provenienti dal mondo delle arti, dell’impresa, della sanità, del commercio, dell’industria, della comunicazione” (“Un’idea fucsia nata sorseggiando un aperitivo viola”, cantieredelledonne.it). Prima tre amiche al bar, adesso quaranta a cena, in un evento che costituisce una pietra miliare nella storia del Cantiere delle Donne.
   Questo successo non rappresenta un esempio dell’eterogenesi dei fini, di Wilhelm Wundt, perché l’obiettivo attinto, superiore a quello programmato, non gli era del tutto estraneo: brillava in un effetto “vedo non vedo”, immanente a un angolino delle sue regioni più prudenti. Queste campionesse ci credevano, ma saggiamente non hanno dato per scontato il suo avvento. Hanno amato, nel deliberare e realizzare un approccio alla realtà, uno stile mentale improntato al realismo caro anche a Stendhal, che nel Caffè Pedrocchi, un loro punto di riferimento, le ha precedute. L’illustre fan del ‘Caffè senza porte’, meravigliosa icona patavina, ammirò pure “Les femmes dans les cafés” (“La Chartreuse de Parme”) e ne attinse la culturale spinta a migliorare la propria Weltanschauung. Le eroine del Cantiere meritano, a maggior ragione, un novello Stendhal che le lodi e ringrazi per la loro importanza.

Walter Galasso