Il film che vorrei vedere  (Articolo di Andrea Carovigno, da Torino)

Il film che vorrei vedere  (Articolo di Andrea Carovigno, da Torino)

Amici esploratori dell’immaginario, ho tentato di catturare in queste righe l’eco di un film che risuona solo nella mia mente, un’opera mai nata eppure vividissima. Spero che, tra un sorriso e una riflessione, possiate perdervi anche voi in questa visione. Buona lettura!

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FOTOGRAFIA DI TORINO INVIATA DA ANDREA CAROVIGNO

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DI ANDREA CAROVIGNO

C’è un film, lo giuro, che mi frulla in testa come una playlist dimenticata ma che non è mai finito sul grande schermo. Non ha mai sfilato su tappeti rossi né ha ricevuto premi dorati, eppure le sue immagini, i suoi suoni, le sue emozioni risuonano nella mia mente con la chiarezza di un campanello squillante. A volte mi chiedo se non l’abbia già visto in un universo parallelo, magari dopo aver esagerato con la mozzarella sulla pizza!

Non è un colossal da milioni di dollari, di quelli che ti fanno sentire povero solo a leggere il budget, né un patetico dramma che sussurra verità scomode lasciandoti con la voglia irrefrenabile di abbracciare il primo sconosciuto. No, è qualcosa di più intimo, più viscerale. È la pellicola che racchiuderebbe la mia visione più audace, quella che non si limita a raccontare una storia, ma ti catapulta in un’esperienza, un’immersione totale, quasi un sogno lucido da cui riemergi non con la sensazione di aver visto qualcosa, ma di aver vissuto profondamente, magari scoprendo di saper fare il nodo alla cravatta al rovescio!

Questo film sarebbe un viaggio nel tempo, ma non tra dinosauri o robot che indossano la lycra. Sarebbe un’odissea nel tempo interiore, quello delle percezioni più sottili, delle sfumature che colorano la nostra esistenza, dei “chissà se ho chiuso il gas” proprio quando stai per addormentarti. Non servono navicelle spaziali, solo un animo disposto a lasciarsi andare.

Le scenografie che respirano

Le scenografie di questo film? Non semplici sfondi da rivista patinata, ma entità vive, che pulsano all’unisono con l’umore dei personaggi e, diciamocelo, anche con la nostra ansia pre-pagamento bollette! Ogni angolo, dal vicolo più angusto dove ti aspetti un gatto filosofo alla distesa naturale che ti fa sentire minuscolo come un chicco di riso, sarebbe intriso di una personalità propria, capace di evocare sensazioni precise senza bisogno di didascalie o, peggio, di un narratore che ti spiega l’ovvio.

I colori non sarebbero scelti a caso, come si fa con il filtro Instagram prima di postare la foto del cibo. No, comporrebbero una sinfonia visiva, riflettendo l’evolversi della storia: tonalità calde e avvolgenti per i momenti “anima gemella trovata in fila al supermercato”, sfumature fredde e spigolose per le crisi esistenziali (quelle in cui ti chiedi cosa farai da grande a cinquant’anni!), e un bianco abbagliante per le rivelazioni epifaniche, magari scoprendo che le calze spaiate non sono un mistero, ma una vera e propria cospirazione!

Le luci, poi, avrebbero un ruolo quasi narrativo, scolpendo i volti, sottolineando gli sguardi, danzando tra le ombre per svelare o nascondere ciò che è indicibile a parole, tipo il fatto che hai appena finito l’ultima fetta di torta. Niente set costruiti, ma luoghi reali, scelti per la loro intrinseca risonanza emotiva, capaci di parlare al cuore prima ancora che alla vista, sussurrandoti segreti antichi, come dove trovare parcheggio in centro.

I silenzi eloquenti

La musica, in questo film ideale, non sarebbe un mero sottofondo da ascensore glorificato, ma una voce narrante a sé stante. Non una partitura onnipresente che ti segue persino in bagno, ma una presenza discreta, che emerge solo quando il silenzio diventa troppo assordante – quel silenzio che senti aspettando una risposta importante o quando realizzi di aver lasciato il telefono a casa – o quando un’emozione ha bisogno di essere amplificata oltre la soglia del visibile, tipo la gioia di trovare 20 euro in una vecchia giacca!

I silenzi, in particolare, sarebbero carichi di significato, capaci di dire più di mille dialoghi e di evitarti pure qualche figuraccia. Li immagino lunghi, profondi, interrotti solo dal fruscio del vento, dal battito di un cuore, dal respiro affannoso di chi ha appena rincorso il tram. La colonna sonora, quando c’è, sarebbe eterea, quasi impercettibile, intessuta di suoni naturali, di melodie che evocano nostalgia, speranza, la fragilità dell’essere umano… quel senso di smarrimento quando scopri che il tuo telefilm preferito è finito. Vorrei che il pubblico uscisse dalla sala non canticchiando un motivetto orecchiabile che non ti togli più dalla testa per giorni, ma con il ricordo di una melodia interiore, quella che risuona quando sei davvero in ascolto di te stesso e del mondo circostante, e magari anche di quella vocina che ti dice “hai fame!”.

Il protagonista nascosto

Il vero protagonista di questo film non sarebbe un attore, per quanto talentuoso e bello da farti sognare, ma… lo spettatore stesso! L’intreccio narrativo sarebbe costruito per permettere a ognuno di proiettare le proprie esperienze, i propri timori e le proprie speranze sui personaggi, come se il grande schermo fosse uno specchio gigante della propria vita, magari un po’ appannato ma comunque funzionale.

Le vicende si snoderebbero attraverso sguardi, gesti, suggestioni più che dialoghi espliciti, lasciando ampio spazio all’interpretazione personale, così da poter litigare animatamente con gli amici sull’esatto significato di quella scena muta. Il finale, lungi dall’essere una conclusione definitiva, un “e vissero per sempre felici e contenti” che sappiamo tutti essere una bugia bella e buona, sarebbe un punto interrogativo, un invito a continuare la riflessione, a portare il film dentro di sé molto tempo dopo che i titoli di coda sono scorsi e la sala si è svuotata, lasciandoti solo con il rumore dei popcorn calpestati.

Non ci sarebbero risposte preconfezionate, di quelle che trovi sui Baci Perugina, ma piuttosto domande profonde che riecheggiano, spingendo all’introspezione e alla riscoperta del proprio universo interiore, e magari anche alla ricerca su Google di “significato dei sogni con i gatti”. Un’esperienza che non finisce con il buio della sala, ma che continua a vivere e a evolversi nella mente di chi l’ha vissuta, un po’ come quella macchia di caffè sul divano che non se ne va mai!

Un pizzico di magia

L’innovazione in questo film non risiederebbe negli effetti speciali mozzafiato che ti fanno sbavare sulla poltrona o nelle tecnologie all’avanguardia che ti fanno sentire obsoleto prima ancora di uscire dalla sala. Nulla di virtuale che ti faccia dubitare della realtà, ma un’estetica visiva che sfida realmente le aspettative, che gioca con la prospettiva, con la profondità di campo, con il montaggio non lineare per riflettere il flusso caotico e meraviglioso della coscienza umana.

Immagino inquadrature che inducono una sensazione di vertigine, quasi fossi su una montagna russa emotiva, piani sequenza che ti trasportano in un’altra dimensione, come quando ti perdi nei tuoi pensieri durante una riunione noiosa, e momenti di pura astrazione visiva che comunicano stati d’animo complessi senza ricorrere al linguaggio verbale, perché a volte le parole proprio non bastano, specialmente quando devi spiegare perché hai mangiato l’ultima fetta di torta!

Il film sarebbe un esperimento sensoriale, che punta a toccare corde profonde dell’inconscio, a risvegliare sensazioni primordiali, quelle che ti fanno dire “Oh cavoli, questa cosa l’ho già sentita!”. L’innovazione sarebbe nel coraggio di essere essenziale, di togliere anziché aggiungere, di lasciare spazi vuoti affinché sia lo spettatore a riempirli con la propria immaginazione e sensibilità, trasformando la sala in un laboratorio di pensieri e la proiezione in una tela bianca per la tua mente.

La scena finale (o forse l’inizio di tutto?!)

E quando le luci della sala si riaccendono, niente corsa sfrenata verso l’uscita per controllare le notifiche. No, ci sarebbe un silenzio reverente, un misto di stupore e un leggero disorientamento, come quando ti svegli da un sogno incredibilmente vivido e per un attimo non sai più dove ti trovi. Ogni spettatore si troverebbe di fronte a un piccolo specchio posto sulla poltrona, e per un istante, solo per un istante, vedrebbe riflesso non il proprio volto, ma un frammento di sé stesso: un ricordo, una speranza, una domanda irrisolta che il film ha saputo risvegliare.

E in quell’attimo di pura e fragile introspezione, capirebbe che il film appena visto non era solo una storia proiettata su uno schermo, ma un invito, sussurrato dalle profondità del proprio inconscio, a continuare a guardare, a sentire, a vivere, non solo dentro una sala buia, ma in ogni singolo, meraviglioso, a volte comico, istante della propria esistenza. E magari, solo magari, qualcuno si accorgerebbe di aver ritrovato una calza spaiata nel buio. E allora, sì, quel film sarebbe davvero un successo!

Che cosa ne pensi?

Andrea Carovigno