EMUNTE GUANCE COME FOSCOLO  E TANTA SFIGA   [Bozzetto  37;  Comune:  ROMA]

EMUNTE GUANCE COME FOSCOLO  E TANTA SFIGA   [Bozzetto  37;  Comune:  ROMA]

DI WALTER GALASSO

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   Viaggio mentalmente a bordo di un brano musicale, d’antan e modernissimo al tempo stesso. A proposito del Tempo: dov’è, qual è adesso la sua apparenza e quale l’immagine della sua sostanza?
   L’audace tentativo d’una risposta, spedita alla sua domanda come a mezzo posta si invii una raccomandata con ricevuta di ritorno, viene alterato, infastidito, stoppato da un’inconfondibile interferenza. Sono in un ‘pit stop’ d’un allenamento metropolitano su bici da corsa, “Bianchi Sempre Pro” dentro Roma, e la panchina su cui rifletto inizia a vibrare leggermente, così diventando la potenziale icona metaforica di molti stati d’animo a base di paura. La causa -in parte una colpa, in parte un merito- di questa piccola coupure è un grande protagonista di questo spicchio dell’Urbe, un tram celeberrimo, un mitico veicolo che fa ciclicamente la spola fra un Largo e una stazione parimenti ad alti livelli. Lui, guascone e ieratico, simbolico e utilissimo, transita lemme lemme, inclusivo di eterogenea gggente, e la villa in cui mi trovo, un’oasi di verde pubblico, ne è fisicamente e romanticamente condizionata. Risplende in modo implicito una pregnante osmosi fra il veicolo e il suo habitat, abbondano le interfacce fra il suo hardware e la flora circostante, fra il suo software e l’apparato sensoriale di chi qui ed ora popola questo suggestivo microcosmo.
   Un dignitoso signore, con marroni scarpe da teen-ager e saggezza da scafato matusa, pur percependo il meccanico tremore -simile a un brivido, brrr, di freddo o fifa blu- del divanetto, neppure ci fa caso, tetragono come le tonnellate di un palazzo in mezzo a un lieve venticello.
   A monte di questa indifferenza sussiste un perché, serio, tale da scagionarne la psiche da qualsivoglia imputazione: il suo colto Io è immerso nella profonda lettura di un cartaceo giornale. Un quotidiano che ostenta con fierezza la sua appartenenza a una tradizione sul viale di un tramonto non rosa. Dalla pubblicazione emana un odore che, correndo all’impazzata verso narici che equivalgono alle radici d’un suo relativo protagonismo, allude a ieri, a lati fragili di un classicismo impolverato. Questo lettore è disinteressato alfiere di una Resistenza ricca di autonomia. Coerente con sé mentre sprofonda, a malapena essendone conscio, in una museale incoerenza con sintetiche tendenze del presente. Non è all’altezza dei tempi, ma nell’esperienza tattile in cui le sue dita sfogliano le gigantesche pagine della pubblicazione non si registra nessuna malinconica eco di questo cocciuto anacronismo. Beve a secco news, la sua mente si tuffa, da un trampolino vagamente imparentato con il socratico sapere di non sapere, nell’assimilazione del contenuto degli articoli che più lo calamitano, e sotto il suo cappello, a falde trash, il suo volto irradia un antico senso dell’onore.
   Peccato che questa aristocratica dignità, una specie di adolescente emissaria di un ancien régime con pittoresche ragnatele, sia disturbata da un disagio profano:  la panchina su cui è assiso non è aduggiata da protettive foglie vegetali, non essendo sottostante ad alcun albero, ergo gli piove addosso il climatico bullismo d’una temperatura già estiva, e nel suo organismo serpeggiano molestie ai bordi d’una tortura. Le panchine nelle vicinanze, invece, giacciono bellamente sotto l’ubertosa chioma di monumentale vegetazione, e chi le sta utilizzando passivamente gode di una meravigliosa ombra.
   Lo sfigato lettore, sommo intellettuale dai piedi d’argilla, studia solennemente giornalismo ma, nel frattempo, non riesce a non gettare saltuariamente uno sguardo su quelle fortunate persone. I suoi occhi, in queste periodiche sbirciate, equivalgono ad archi che scoccano (puerile) invidia. La sua fronte, a forma di monte Fuji -pare che questa tipologia denoti un alto tasso di socievolezza-, è, sigh, drammaticamente madida di sudore. Si stanno abbronzando, senza volerlo, le sue guance, emunte come quelle di Ugo Foscolo -mentre elaboro questa similitudine istintivamente lo guardo e penso “Ti piacerebbe, eh!”-. Questo utente modello dei mass media da un lato si abbevera al genio di cronisti sul pezzo, dall’altro patisce, come disgraziato effetto collaterale, un’incipiente forma di dannata sofferenza. Ah, cosa bisogna fare per procacciarsi un figurone in mezzo agli altri!
   L’umbratile fortuna che il Nostro sta maggiormente invidiando, se il mio intuito non fa cilecca, è una nipponica signorina che, beneficiaria di un prodigioso smac della dea bendata, ha trovato posto nientepopodimeno che sotto il tree numero uno di tutto il parco pubblico, una specie di titanico baobab. La frescura prodotta da questo capolavoro allieta così tanto il suo organismo che, dopo un’intermedia fase di neghittoso alloppiamento, la ragazza s’è sdraiata e, all’apogeo di questa pacchia, è salita in braccio a Morfeo. E dorme ancora, beatamente, forse immersa in sogni così sereni da poter dare problemi interpretativi a un Freud, abituato a studiare flussi onirici complicatissimi e perciò preso in contropiede dalla serenità di quella pennichella en plein air. Ronfa, supina e beata, acusticamente attorniata dal sinfonico cinguettio di uccellini che con il loro canto probabilmente hanno funto, poco fa, da aviari autori d’una ninna nanna che ha giovato alla sua transizione dalla veglia al sonno.
   L’uomo, che vorrebbe tanto essere al suo posto, converte la frustrazione in un supplemento di impegno, per autoconvincersi che è meglio stare scomodi ma crescere nel Sapere che riposarsi in mezzo a una freschissima ombra e una pigrizia sterile.
   Quando già sta per rassegnarsi a dover rincasare rosso come un peperone, sperando che nel frattempo la carta del newspaper non prenda fuoco, un evento cambia un millimetro del corso del suo destino. Squilla il telefono della dormiente demoiselle, che viene svegliata, con un affettuoso strattone, da una limitrofa amica. Inizia la call e, poco dopo, le girls si alzano, forse perché nella telefonata le due persone hanno deciso d’incontrarsi in un imminente appuntamento. Si liberano due posti all’ombra. Il lettore smette di esserlo, s’alza scattando come un’erudita cavalletta e si fionda su quella panca.
   Però esagera e si busca, strada facendo, una distorsione a una caviglia -rimprovero  dolcemente la mia bici, che ha iniziato a ridere-. Certi intellettuali, si sa, possono non avere un fisico bestiale. Mannaggia, urge un blitz in farmacia, bye-bye ombra. Pazienza, si vede che era destino…

Walter Galasso