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DI WALTER GALASSO

Un venticello bello e ibrido, né caldo né freddo e neppure tiepido, mi sfiora come se voglia comunicare con me, in un dialogo intangibile. Marcio garbatamente su Ponte Sisto, nella Città Eterna, passi in connubio con un ritmo rispettato senza l’ausilio di un metronomo. Panorama da cento e lode in pagella, il sublime e quasi metafisico glamour di meraviglie uniche al mondo si sposa, in un matrimonio ‘morganatico’, con un tran tran così interessante che viene la voglia di sostituirlo con un’espressione più lunga, come minimo tran tran tran tran, un poker pieno di implicazioni poetiche.
All’improvviso un colpo di scena: sfreccia come un’umana saetta un atletico straniero -mi chiedo se abbia vinto qualche medaglia d’oro in un’Olimpiade, con i cinque cerchi evidenziati mediante un effetto di magica fosforescenza-. Fugge alla velocità della luce, sprigionando eroica ansia da tutti i pori, emanando un senso di epica ribellione a qualche pericolo. Difficile stabilire a quanti chilometri all’ora voli in terra.
Immediatamente albeggia in me un vocabolo, idoneo a definirne metaforicamente le res gesta in fieri: grifone. Sì, questo personaggio mi dà l’idea di un mix di leone, con criniera gagliarda, e aquila reale. Ne prenda esempio qualche commendatore con pappagorgia per il suo tenore di vita sedentario. Questo Übermensch può fare il testimonial della Red Bull Sugar Free, una delle bevande che non manca mai nel mio frigorifero.
Nella sua performance, però, non è oro tutto ciò che luccica. Dietro la valentia fisica si cela una gamma di drammi, e mi è impossibile creare nel pubblico una qualche forma di suspense, perché si materializza ex abrupto, segugio all’inseguimento di quel giovane, un uomo in divisa, apparizione così piena di energia che una parte di questa forza fa capolino fra le lettere di questo racconto, implicando un involontario spoiler. Nessun dubbio, scena chiara, anzi chiarissima. Il secondo, sicuramente un buono (ma con un pizzico di caveat) della storia dà la caccia al primo, che a qualcuno può sembrare un cattivo del film. Chi scappa è un rivenditore abusivo di merce contraffatta, tipo polo con la foto d’una lucertola nel punto in cui il brand Lacoste -marca più prestigiosa d’uno scrittore specializzato in malavita e dintorni- cuce, come logo, un immoto e innocuo coccodrillo.
Storia vecchia, un risaputo leitmotiv déjà-vu. Multinazionali potentissime, che sfornano griffati gioielli, con un fatturato che farebbe gola a Zio Paperone, s’incazzano quando qualcuno imita i loro prodotti, producendo fetecchie gabellate per merce firmata, poi tentando di sbolognarla a qualche acquirente che, non creso, faccia finta di credere alla sua autenticità.
Mentre assisto all’inseguimento mi pongo una domanda lampo. Credo che in questa società non manchino pseudovip, soggetti che per qualche motivo, per esempio il feudale appoggio di qualche sponsor ‘magnaccia’, ha un buon posto ma non lo merita, lo usurpa, ladro -più o meno come chi lo raccomanda- di senso, di giustizia, di meritocrazia. In una parola, per dirla in francese: “merde”, superfetente. Questi Proci sono una contraffazione vivente di chi dovrebbe, con merito, stare al loro posto: perché nessuno li insegue per arrestarli?
Chiusa la parentesi, digressione saporita come un trancio di friulano tiramisù. Tornando al quia, chi tarocca prodotti fa male, merita rampogne, va sgridato. Tuttavia già se qualcuno lo voglia deportare dietro una lavagna in una classe scolastica, magari non punendo un discente che spara con una scacciacani a una prof, è il caso di gridare allo scandalo di un’esagerazione. Peggio ancora se qualche membro del razzismo -specie purtroppo non ancora estinta- pretenda che il birbante vada a letto senza cena, mentre lui si abbuffa a un tavolo del Ginza Kitafuku in quel di Tokyo, tempio dove pure un hors-d’oeuvre costa un occhio della testa. A maggior ragione adesso qualche spettatore dell’inseguimento -se stesse in un’opera della Decima Musa questo match farebbe la fortuna del produttore- può nutrire qualche perplessità, soprattutto perché chi insegue stringe in una mano una pistola. Qualcuno può congetturare che quest’arma, clamorosamente estratta dalla fondina, sia degna di miglior, cioè peggior causa. Il fuggiasco, se tanto mi dà tanto, può sparare -idealmente- solo internazionali speranze contro la miseria, per il resto è un inerme (e simpatico) personaggio. Deve espiare il suo reato, ma merita rispetto.
L’agente, bene inteso, è un encomiabile servitore del suo dovere, la società deve dirgli grazie per la sua dedizione a un mestiere particolare, tanto pericoloso, per lui, quanto utile, per la comunità. Un intellettuale, però, analista super partes, può dirgli, con un microfono, che sta sbagliando, dopo aver precisato, con un megafono, che pure qualche santo può aver eccezionalmente errato in un momento di umanissimo nervosismo.
Io, mentre il reo guadagna una via di fuga -una scala dei Muraglioni, per scendere e guardare il Tevere a un tiro di schioppo-, e il suo avversario tenta di non esserne seminato, per qualche secondo mi distraggo dai dettagli della loro tenzone, e osservo effervescenti riflessi sul cheto pelo dell’acqua fluviale. Riprendo a scrutare l’antagonismo fra le due polarità. L’evento è una performance, duale, ad alto tasso di drammatica spettacolarità, in un tourbillon di adrenalina, batticuore, ambascia e grinta, zelo e disperazione, stacanovismo ed efficienza.
Il contraffattore è un campione, ma l’antagonista, tutt’altro che schiappa, gli tiene testa. Campione il ladro, campioncino lo spirito della guardia. Nessun rischio di un walk-over, qui nessuno può umiliare nessuno, il braccio di ferro è destinato a non implodere in un trionfo unilaterale. I due corrono così tanto da impedire, agli immancabili testimoni muniti di smartphone per ritrarre il fuoriprogramma, di farsi un selfie davanti ai due atleti. Questi corrono troppo, ci vuole come minimo un drone per filmarne la ‘gara’ in diretta. L’agente scende precipitevolissimevolmente la scala, e io, che non vedo più lo straniero, evito di seguire l’inseguitore, anche per non creare l’effetto ‘trenino’ senza “Disco Samba”.
A un certo punto l’uomo in divisa risale, con espressione permeata di rammarico. L’abusivo ha vinto, si è dileguato, e il biondo Tevere non ha voluto, non vuole e non vorrà fare la spia.
Walter Galasso
Ho pianto sul finale…grazie